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Euro crisis

2018, l’anno in cui l’Italia farà crack (in assenza di un’uscita dall’euro). Ecco perché

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Illustration of a graph where the figures suddenly fall through the floor

Lasciamo parlare i fatti, le conclusioni le trarremo dopo. Diciamo che se l’economia italiana non si riprende, se la crescita non riparte, l’Italia oberata da un debito enorme pari ad oltre il 130% del PIL considerando le ipotesi di economia sommersa o oltre il 150% considerando solo il PIL nominale rischia di fare crack molto presto.

Dunque, riassumiamo gli elementi fattuali:

– i tassi di interessi pagati sul debito sono in salita globalmente e dunque anche e soprattutto per l’Italia, circa l’1% nell’ultimo trimestre sul decennale;
– se, come il mercato si attende, tale trend di crescita dei tassi durasse qualche anno – anche a fronte della recente salita dei prezzi petroliferi – l’incremento di costo annuale si trasferirebbe nei conti statali (1% di tasso in più significano circa 10+ mld euro annui di maggiori interessi a regime in 2 o 3 anni considerando le inerzie temporali);
– dal 2018-19 i nostri governanti si sono impegnati all’applicazione integrale del fiscal compact per un ammontare di circa 25-30 mld euro annui di tasse/minori trasferimenti aggiuntivi, ma senza considerare ulteriori aggravi dati da poste non previste (ad es. salvataggi bancari, praticamente certi);
– sulla base a quanto annunciato da Unicredit possiamo stimare che le banche italiane dovranno licenziare circa 40’000 addetti nei prossimi anni, con innegabili conseguenze a livello di consumi privati da parte dei dipendenti licenziati;
– dal luglio 2017 la fusione di Equitalia ed Agenzia delle Entrate renderà molto più efficiente la macchina tributaria permettendo di passare dai 160’000 pignoramenti annui a 5’000’000 pignoramenti annui, stima interna della Camera, con gravi conseguenze in termini di blocco dei conti e conseguenti freni ai consumi ed alla crescita;
– in assenza di tagli dei costi lo Stato per far tornare i conti con l’EU dovrà aumentare l’IVA a partire dal 2018-19 portandola al 25-25,5%;
– l’INPS perde oltre 15 miliardi di euro nel 2015 portando il capitale residuo a poco meno di 6 miliardi di euro, ossia entro i primi 4 mesi del prossimo anno l’INPS diventerà tecnicamente insolvente e quindi necessiterà di iniezioni di capitale, leggasi maggiori tasse, confische e sequestri di beni da parte dello Stato a compensazione, con innegabili effetti avversi sulla crescita;
– la popolazione italiana sta inesorabilmente invecchiando determinando come conseguenza un inevitabile aggravio della spesa sanitaria (e previdenziale), oggi pari a ca. 110 mld euro annui;
– parimenti, i giovani soprattutto se formati stanno emigrando a frotte, sostituiti in Italia da extracomunitari senza qualifica specifica;
– la crescita italiana prevista sempre molto ottimisticamente dal governo non potrà superare lo 0.9% nei prossimi anni, almeno se si considera la tara tra previsioni e realtà sulla scorta di quanto accaduto negli ultimi 5 anni.
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Mi fermo qui anche se le notizie negative non sono certamente finite, ricordiamo ad esempio i piani governativi per aumentare i valori di stima degli immobili e conseguente maggiore aggravio in termini di IMU pagata dai cittadini dal 2018-2019, con tutte le conseguenze del caso in termini di maggior crescita (si stima un raddoppio dell’IMU a decorrere dal 2019).
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La big picture è che maggiori tasse imposte dall’Europa si tradurranno inevitabilmente in minore crescita e dunque porteranno maggiori tasse successive per recuperare il minor gettito derivante da una crescita sotto le previsioni. Eventuali privatizzazioni imposte dall’EU condurrebbero anch’esse a minore gettito vedi per efficientamenti delle aziende vendute che, sebbene in attivo, dovrebbero guadagnare di più per soddisfare gli appetiti degli investitori esteri in veste di futuri acquirenti, che poi trasferiranno i maggiori utili all’estero. O verrebbero richiesti aumenti di tariffe – come sta ripetutamente richiedendo Telecom Italia ormai di proprietà francese – con conseguenti costi aggiuntivi in capo agli utenti italiani ormai allo stremo, sempre con lo scopo di pagare i dividendi ai proprietari esteri. E senza contare gli effetti dei licenziamenti della manodopera italica sui consumi nazionali, dunque in ulteriore discesa.


La conclusione è semplice: restando nell’euro l’Italia farà inevitabilmente crack o qualcosa di simile. Visti gli elementi fattuali sopra riportati la data del traumatico evento può essere stimata tra la seconda metà del 2018 e la fine del 2019 (guarda caso dopo le elezioni italiane) quando bisognerà scegliere tra:

– una sistematica spoliazione dei beni del Paese sia pubblici che privati, incluse aziende e monumenti a compensazione del debito detenuto da chi impone l’austerità, vedasi quanto accade in Grecia;

– un crack dello Stato, anche dovuto all’indisponibilità di risorse per rispettare i conti austeri europei;

– un taglio di tutte le pensioni;

– una esplosione della tassazione ai limiti della confisca (incluse le imposte patrimoniali, sempre in cima ai desideri di Berlino, da imporre anche e soprattutto ai paesi EU in crisi) e/o una ribellione all’EU austera;

– un golpe interno finalizzato al pagamento del debito da parte della popolazione;

– sommosse popolari per evitare il pagamento di tasse simili all’esproprio;

– guerre;

– fuga delle persone dal Belpaese;

– un mix di tutto quanto sopra.

 

Mitt Dolcino


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